Lavoro/Ferrera

Maurizio Ferrera – La societa’ del Quinto Stato – Laterza (2019)

Il forte aumento della diseguaglianza ha avviato un processo di «disarticolazione» della struttura sociale in termini di chance di vita: opportunita’, interessi, orizzonti, connessioni.
La struttura di classe delle societa’ avanzate si e’ riarticolata in cinque segmenti.
In alto troviamo la gia’ menzionata elite di plutocrati quasi interamente «inglobata»: il percentile piu’ ricco e’ pienamente inserito nei circuiti globali – soprattutto quelli finanziari –, in grado di consumare e vivere in un mondo senza confini. Per questa elite la globalizzazione e’ stata ed e’ un grande vantaggio in termini di reddito, ricchezza, opportunita’, incluse quelle d’influenza politica (affluence is influence).
A seguire, troviamo il ceto altoborghese, benestante ma tuttora ancorato a patrimoni e attivita’ prevalentemente nazionali. Questo ceto controlla ancora buona parte delle posizioni di autorita’ all’interno dei vari paesi, spesso attraverso meccanismi di cooptazione.
Al centro della distribuzione vi e’ la «massa media», a sua volta sempre piu’ differenziata fra nuovi e vecchi ceti, come si e’ appena detto.
Il tradizionale Quarto Stato si e’ storicamente disciolto all’interno di questa massa ed e’ oggi principale componente della vecchia classe media, in via di arretramento: nel complesso questo ceto ha registrato una stagnazione dei propri redditi e, durante la crisi, addirittura una riduzione.
A dispetto dell’impoverimento relativo, la vecchia classe media e’ in qualche modo connessa ai circuiti globali, in quanto consumatrice di beni e servizi resi accessibili proprio dalla globalizzazione: pensiamo ai voli low cost e al turismo di massa, a computer, cellulari e cosi’ via.
Ma della globalizzazione questo ceto percepisce oggi soprattutto gli aspetti negativi sul piano della insicurezza economica e sociale. Molte famiglie hanno perso il lavoro e/o hanno dovuto ridimensionare il tenore di vita […]
Al fondo della distribuzione troviamo i “deprivati”, gli “esclusi” e soprattutto la maggior parte dei precari. Chi fa perte del Quinto Stato tende a subire le conseguenze negative dell’apertura e delle politiche che l’hanno accompagnata: liberalizzazione dei mercati del lavoro, delocalizzazioni, tagli ai servizi pubblici (compreso il personale) e cosi’ via. I fautori della globalizzazione e dell’integrazione economica hanno sovrastimato il potenziale di trickle down (gocciolamento verso il basso) di questi processi. Dei vantaggi economici hanno beneficiato solo i decili più alti.

Info:
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858139790
https://www.pandorarivista.it/articoli/la-societa-del-quinto-stato-di-maurizio-ferrera/
https://maurizioferrera.wordpress.com/2018/07/16/il-quinto-stato/
https://www.corriere.it/cultura/19_settembre_17/quinto-stato-serve-nuovo-welfare-proposte-maurizio-ferrera-585a6428-d96a-11e9-8812-2a1c8aa813a3.shtml

Lavoro/Ferrera

Maurizio Ferrera – La societa’ del Quinto Stato – Laterza (2019)

Il deficit italiano di occupati nei servizi sociali non e’ un effetto della crisi o dei risparmi di spesa. E’ un deficit storico, che viene da lontano e ha a che fare con la coppia familismo-pensionismo.
Il welfare italiano ha sempre privilegiato i trasferimenti monetari agli anziani; alle famiglie con figli piccoli sono arrivate solo le briciole, anche in questo caso perlopiu’ sotto forma di assegni, sussidi e detrazioni monetarie.
Cosi’ i nuclei familiari sono diventati delle piccole aziende fai da te: autoproduzione di cura, assistenza ai bambini e agli anziani, servizi domestici, dai pasti alle pulizie, dal bucato alle ripetizioni scolastiche. Un modello sociale ripiegato su se’ stesso: la famiglia puo’ infatti trasformarsi in una trappola per giovani e donne, la solidarieta’ intergenerazionale diretta attraverso le pensioni dei nonni crea disparita’ e disfunzionalita’.
E soprattutto questo modello crea molte pastoie per i processi di crescita economica e occupazionale.
Il welfare «fai da te» oggi non regge piu’, soprattutto per le madri – e sempre di piu’ anche per le figlie adulte – su cui ricadono troppi compiti.
Piu’ di 650 mila donne inattive che si prendono cura dei figli minori, di adulti malati o disabili, di anziani non autosufficienti dichiarano che vorrebbero lavorare, ma non possono farlo per l’insufficienza di servizi pubblici o per l’alto costo di quelli privati. Il carico di cura che grava sulle spalle di queste donne e’ cosi’ intenso che molte devono comunque ricorrere ad aiuti informali.

Info:
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858139790
https://www.pandorarivista.it/articoli/la-societa-del-quinto-stato-di-maurizio-ferrera/
https://maurizioferrera.wordpress.com/2018/07/16/il-quinto-stato/
https://www.corriere.it/cultura/19_settembre_17/quinto-stato-serve-nuovo-welfare-proposte-maurizio-ferrera-585a6428-d96a-11e9-8812-2a1c8aa813a3.shtml

Lavoro/Ferrera

Maurizio Ferrera – La societa’ del Quinto stato – Laterza (2019)

I contemporanei mercati del lavoro possono essere suddivisi in quattro diversi comparti.
Il primo raggruppa i posti di lavoro a qualifiche medie e alte nei settori esposti alla concorrenza internazionale: caso tipico, l’industria manifatturiera. Nella misura in cui le imprese di un dato paese continuano a innovare e a penetrare i mercati esteri, i livelli di occupazione di questo primo comparto hanno la possibilita’ di rimanere stabili e persino di registrare qualche aumento.
A dispetto dei rivolgimenti interni, la manifattura italiana non ha ad esempio sofferto troppo durante la crisi e riesce ancora ad assorbire ogni anno una quota di giovani proporzionalmente piu’ alta rispetto alla Germania.
Il secondo comparto riguarda sempre i settori esposti, ma raggruppa i posti di lavoro a basse qualifiche. Sappiamo che la globalizzazione e soprattutto l’innovazione tecnologica non minacciano direttamente le qualifiche, ma le mansioni: vi sono dunque alcuni margini per riorganizzare i processi produttivi in modo da conservare almeno una parte dei posti di lavoro a rischio a causa dell’automazione e dei robot. Tuttavia simili riorganizzazioni consentono di rallentare, ma non di neutralizzare l’ineluttabile distruzione di posti di lavoro in questo secondo comparto […]
Gli altri due comparti riguardano i settori non (o scarsamente) esposti alla concorrenza estera e strettamente legati al contesto territoriale di riferimento.
Nel terzo troviamo le occupazioni ad alte e medie qualifiche nel settore pubblico (incluse sanita’ e istruzione) e in molti servizi privati rivolti sia direttamente alla popolazione residente (ad esempio banche e assicurazioni), sia alla valorizzazione e allo sfruttamento economico del territorio, in particolare tramite il turismo. Qui le prospettive di crescita occupazionale sono significative, ma dipendono dalle risorse disponibili per la pubblica amministrazione nonche’ dalla creazione di nuove filiere di servizi capaci di espandere la cosiddetta white economy (servizi sanitari e di cura) e la green economy (ambiente) […]
Nel quarto e ultimo comparto troviamo infine i rami bassi – in termini di qualifiche – della pubblica amministrazione e dei servizi non pubblici, inclusi quelli «di prossimita’» alle persone e alle famiglie.
Qui gli effetti delle nuove tecnologie saranno relativamente limitati (pensiamo all’assistenza sociale) e la globalizzazione non e’ una minaccia: si tratta infatti di servizi che non possono essere delocalizzati, esattamente come nel terzo comparto.
L’invecchiamento demografico e la crescente occupazione femminile, con le relative esigenze di conciliazione, alimenteranno la domanda di lavoro non particolarmente qualificato in vari settori: dalla ristorazione alla cura di anziani e bambini, dalla distribuzione commerciale alla fornitura di servizi a domicilio.

Info:
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858139790
https://www.pandorarivista.it/articoli/la-societa-del-quinto-stato-di-maurizio-ferrera/
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Lavoro/Allievi

Stafano Allievi – La spirale del sottosviluppo. Perche’ (cosi’) l’Italia non ha futuro – Laterza (2020)

L’Italia, di fatto, e’ messa male.
Il PIL italiano e’ aumentato del 45,2% negli anni Settanta, del 26,9% negli Ottanta, del 17% negli anni Novanta, ma solo del 2,5% negli anni Duemila: una dinamica che non ha paragoni negli altri paesi sviluppati.
Peggio ancora: l’aumento della produttivita’ – un indicatore chiave – e’ precipitato dal 2,8% degli anni Settanta allo zero dei Duemila”.
Dati che dicono molto, anche se non tutto […]
La spesa in cura, assistenza e previdenza: oltre un quarto del PIL, 28,4%, [e’] in Italia, in linea con quella dell’Unione Europea, che e’ del 27,1%. Ma con una ripartizione interna drammaticamente diversa: in Italia il 16,4% va in pensioni,l’8,2% in sanita’ e il 3,8% in protezione sociale e supporto al reddito, nella UE si tratta rispettivamente del 12,3%, del 10% e del 4,7%. L’Italia spende l’1,6% del PIL in trasferimenti finanziari a bambini e famiglia, la media europea e’ del 2,4%; i nostri paesi di riferimento (Francia, Germania e Regno Unito) spendono il doppio di noi.
Siamo al diciassettesimo posto in Europa per spesa pubblica legata alla famiglia e al primo per pensioni di vecchiaia e reversibilita’: qualcosa vorra’ pur dire.

Info:
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858139868
http://www.avantionline.it/la-spirale-del-sottosviluppo-pesa-sul-futuro-dellitalia/

Lavoro/Ferrera

Maurizio Ferrera – La societa’ del Quinto Stato – Laterza (2019)

Le societa’ europee hanno ormai assunto un profilo nettamente post-industriale.
Nelle loro economie e’ costantemente cresciuto il peso del settore terziario, soprattutto in termini occupazionali.
Con il volgere del nuovo secolo, in tutta l’area OCSE l’occupazione terziaria ha superato quella industriale di un fattore pari a due (o persino tre) a uno. Piu’ in generale, sono profondamente cambiate le strutture del mercato e della famiglia, nonche’ i loro rapporti con il Welfare State […] L’economia dei servizi e’ governata da una logica diversa da quella dell’industria. La principale differenza e’ che nell’ambito dei servizi e’ molto più difficile conseguire aumenti di produttivita’ – un problema che ha conseguenze di rilievo per il mercato del lavoro. Durante l’epoca dell’espansione industriale, gli incrementi di produttivita’ legati a innovazioni tecnologiche rendevano possibile combinare la crescita dei salari con la diminuzione dei prezzi; l’aumento della domanda di beni che ne derivava generava a sua volta nuova occupazione. Tale circolo virtuoso e’ invece piu’ difficile da attivare nel settore terziario, dove i margini di innovazione tecnologica sono molto piu’ ristretti. La riduzione della produttivita’ si e’ cosi’ tradotta in tassi di crescita piu’ bassi.

Info:
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858139790
https://www.pandorarivista.it/articoli/la-societa-del-quinto-stato-di-maurizio-ferrera/
https://maurizioferrera.wordpress.com/2018/07/16/il-quinto-stato/
https://www.corriere.it/cultura/19_settembre_17/quinto-stato-serve-nuovo-welfare-proposte-maurizio-ferrera-585a6428-d96a-11e9-8812-2a1c8aa813a3.shtml

Lavoro/Ferrera

Maurizio Ferrera – La societa’ del Quinto Stato – Laterza (2019)

Nei paesi nordeuropei, la transizione alla condizione di adulto e’ rapida: meta’ dei ragazzi e delle ragazze esce di casa fra i diciotto e i venticinque anni.
I sostegni alle famiglie con figli sono generosi ma si esauriscono al compimento dei vent’anni. In compenso lo Stato aiuta direttamente i giovani che costituiscono unita’ di convivenza autonome.
Chi frequenta l’universita’ ha una borsa di studio. Tutti possono accedere a sussidi abitativi. Quando escono di casa, i ventenni o poco piu’ hanno la possibilita’ di mantenersi, formare presto nuove unioni e fare figli (in media entro i trent’anni). Anche l’inserimento lavorativo e’ rapido e organizzato dai servizi pubblici; gli studenti combinano precocemente studio e lavoro, seguono programmi di formazione e orientamento. […]
I paesi continentali come Germania e Francia hanno un modello piu’ imperniato sulla famiglia. I sostegni per i figli a carico possono estendersi fino ai venticinque anni; la vita con i genitori dura un po’ piu’ a lungo, anche se quasi mai oltre i
trent’anni. Il familismo non impedisce pero’ l’inserimento lavorativo. La scuola e’ congegnata in modo da accompagnare i giovani verso quelle professioni di cui le imprese hanno maggior bisogno.
Nei paesi germanici piu’ della meta’ dei ragazzi segue percorsi di istruzione con una forte componente professionale gia’ nella scuola secondaria, per poi entrare nelle imprese come apprendista. La transizione scuola-lavoro e’ governata in modo relativamente efficace.
Rispetto a quelli del Centro e Nord Europa, il modello di gioventu’ sudeuropeo (e italiano in particolare) ha due spiccate anomalie: l’iperfamilismo e l’assenza di percorsi ordinati di inserimento lavorativo. L’uscita dalla famiglia e’ molto tardiva: fra i venticinque e i trentotto anni meta’ dei giovani italiani vive ancora in casa, record assoluto in Europa […]
Sul fronte dell’inserimento lavorativo la distanza rispetto agli altri paesi e’ colossale: nelle scuole del Sud Europa si fa pochissimo orientamento, soprattutto nello snodo cruciale fra medie inferiori e superiori. In Italia l’alternanza obbligatoria fra scuola e lavoro e’ stata introdotta nel 2015: con una legge, ma senza risorse, senza organizzazione, sperando nell’iniziativa spontanea e volontaria di insegnanti e imprese.
Peraltro la legge del 2015 e’ stata depotenziata nel 2018.
I corsi di prima formazione sono pochi e mal gestiti, questa funzione e’ praticamente delegata alle aziende. Il costo del lavoro per i contratti stabili resta fra i piu’ alti del mondo.
E’ anche per questo che la quota di studenti che riescono a trovare un impiego subito dopo la maturita’ o la laurea e’ inferiore al 50%. E solo a un terzo di questi viene offerto un contratto stabile.

Info:
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858139790
https://www.pandorarivista.it/articoli/la-societa-del-quinto-stato-di-maurizio-ferrera/
https://maurizioferrera.wordpress.com/2018/07/16/il-quinto-stato/
Ferrera

Lavoro/Ricolfi

Luca Ricolfi – La societa’ signorile di massa – La Nave di Teseo (2019)

Quello dell’istruzione e’ l’unico settore della societa’ italiana in cui la produttivita’ e’ in costante diminuzione da oltre mezzo secolo.
Che cos’e’ la produttività dell’istruzione?
Una definizione informale ma intuitivamente chiara e’ la seguente: la produttivita’ e’ l’inverso del numero di anni necessari per raggiungere un determinato grado di organizzazione mentale.
Supponiamo di assumere, come metro, il livello di organizzazione mentale – conoscenze, padronanza del linguaggio, capacita’ logiche – di un diplomato di terza media del 1962, l’ultimo anno prima dell’introduzione della scuola media unica. A lui erano occorsi otto anni di studio per raggiungere quel livello. Quanti ne occorrono oggi per raggiungere un livello comparabile? […]
Ognuno avra’ la sua risposta, la mia ad esempio
e’ che per ottenere quel livello di organizzazione mentale oggi siano necessari da un minimo di cinque anni in piu’ (se si e’ frequentato un buon liceo classico) a un massimo di tredici anni in piu’ (se occorre addirittura un dottorato di ricerca per recuperare pessimi studi precedenti). E se proprio devo buttare li’ un numero, giusto per fissare le idee, direi che otto anni in piu’, rispetto agli otto anni necessari a conseguire la licenza media, e’ gia’ una stima piuttosto benevola dell’abbassamento della produttivita’ dell’istruzione intervenuto negli ultimi cinquant’anni, dalla fine degli anni sessanta a oggi […]
Insomma: in mezzo secolo la produttivita’ dell’istruzione e’, come minimo, dimezzata […]
L’ingente massa di tempo libero regalata dall’aumento della produttivita’ del lavoro non e’ stata usata per innalzare il livello culturale delle persone, la loro sensibilita’ artistica, la loro capacita’ di vivere in modo saggio, piacevole e salutare.
Specie in Italia, dove anche i livelli di istruzione formale sono rimasti bassissimi, il maggiore tempo a disposizione e’ stato impiegato essenzialmente per ampliare lo spettro dei consumi.
Anziche’ usare la cultura per riempire il tempo libero, si e’ scelto di usare i consumi per “attrezzarlo” […]
Di qui l’impressionante sviluppo di beni, servizi e attivita’ il cui scopo primario e’ di aiutarci a “consumare tempo libero”: iPod per la musica, iPad per Internet, smartphone un po’ per tutto, dai messaggi alle foto agli acquisti online; ristoranti, bar, pub, piadinerie, focaccerie, bistrot, paninoteche, gelaterie, tavole calde piu’ o meno etniche, wine store, cocktail bar, sushi bar; spa, palestre, massaggi, centri yoga; corsi di meditazione, cucina, ballo afroamericano, break dance; acquisti online, mercatini dell’usato, mercatini dell’artigianato; maghi alle feste dei bambini, animatori nei villaggi turistici; fiere del formaggio, del risotto, del tartufo, del cioccolato; concerti in piazza, festival di ogni genere e specie, spettacoli all’aperto, megaschermi per gli eventi sportivi e musicali; senza dimenticare l’ampio mondo delle discoteche e dei locali in cui si beve, si ascolta musica, si balla (e qualche volta si sballa) […]
Il tempo libero che il progresso tecnologico ci ha regalato non solo non e’ di tutti, ma e’ inestricabilmente intrecciato al consumo.

Info:
https://luz.it/spns_article/intervista-luca-ricolfi-societa-signorile-massa/
https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2020/01/05/ricolfi-signorile-massa/
https://sbilanciamoci.info/societa-signorile-di-massa-o-societa-signorile-e-basta/

Lavoro/Piketty

Thomas Piketty – Capitale e ideologia. Ogni comunita’ ha bisogno di giustificare le proprie disuguaglianze – La Nave di Teseo (2020)

Quali che siano i limiti della cogestione cosi’ come viene attuata in area tedesca e scandinava, tutta la documentazione disponibile suggerisce comunque che tali norme hanno consentito un certo riequilibrio del potere tra dipendenti e azionisti, assicurando uno sviluppo economico e sociale piu’ armonioso e in definitiva anche una maggiore efficienza all’interno delle societa’ interessate (almeno, rispetto alle situazioni in cui i dipendenti non hanno alcuna rappresentanza nei consigli di amministrazione).
A quanto risulta, e’ soprattutto il fatto che i sindacati partecipino alla definizione delle strategie aziendali di lungo termine e dispongano di tutte le informazioni e dei documenti necessari per decidere, a consentire un maggiore coinvolgimento dei dipendenti e una piu’ elevata produttivita’ del sistema aziendale […]
La cogestione e’ una delle forme piu’ elaborate e durevoli con cui, a partire dalla meta’ del XX secolo, si ufficializza un nuovo equilibrio nei rapporti tra capitale e lavoro. Un equilibrio che e’ il risultato di un lungo processo di lotte sindacali, operaie e politiche, iniziato fin dalla meta’ del XIX secolo […]
Nell’area tedesca e scandinava (per la precisione in Germania, Austria, Svezia, Danimarca e Norvegia), i rappresentanti dei dipendenti hanno tra un terzo e la meta’ dei seggi e dei diritti di voto all’interno dei consigli di amministrazione delle aziende (almeno, in quelle piu’ grandi), indipendentemente da qualsiasi altra partecipazione al capitale aziendale dei dipendenti. Nel caso della Germania, paese precursore di tali riforme, il sistema e’ operativo fin dai primi anni cinquanta del Novecento.
Fino agli anni dieci del Duemila, nonostante i successi ampiamente riconosciuti del modello sociale e industriale tedesco e nordeuropeo, caratterizzato da alti livelli di qualità della vita e produttivita’ e da disuguaglianze economiche contenute, gli altri paesi non ne hanno seguito l’esempio. Nel Regno Unito come negli Stati Uniti, in Francia come in Italia o in Spagna, in Giappone come in Canada o in Australia, le aziende private hanno continuato a essere gestite secondo le immutabili regole delle societa’ per azioni.

Info:
https://www.internazionale.it/opinione/annamaria-testa/2020/06/24/thomas-piketty-capitale-ideologia
https://www.aggiornamentisociali.it/articoli/capitale-e-ideologia-intervista-a-thomas-piketty/
https://www.ilmessaggero.it/libri/capitale_e_ideologia_il_nuovo_saggio_di_piketty_star_dell_economia_pop-5299153.html
http://temi.repubblica.it/micromega-online/piketty-il-capitalismo-non-e-piu-in-grado-di-giustificare-le-sue-disuguaglianze/
https://www.huffingtonpost.it/2018/09/08/lincubo-social-nativista-italiano-potrebbe-molto-rapidamente-riguardarci-da-vicino-piketty-avverte-le-democrazie-europee_a_23520935/

Lavoro/Allievi

Stefano Allievi – La spirale del sottosviluppo. Perche’ (cosi’) l’Italia non ha futuro – Laterza (2020)

Senza immigrati il sistema economico italiano avrebbe un’implosione e saremmo, tutti, enormemente piu’ poveri […] se, educatamente, facessero quanto, meno educatamente, vorrebbero alcuni: e tornassero davvero a casa loro.
Quanto PIL in meno ci sarebbe.
Quante aziende e famiglie senza lavoratori.
Gli immigrati, come abbiamo visto, fanno lavori non qualificati nel 35,6% dei casi, mentre gli italiani nell’8,2% (Fondazione Leone Moressa 2017). Quindi, se sparissero, sono questi i posti che lascerebbero liberi. Quanti disoccupati o NEET italiani li sostituirebbero volentieri? Anche ipotizzando una qualche crescita dei salari nei rispettivi settori? Quanti farebbero i domestici o le badanti, i braccianti o i manovali, i lavapiatti o gli addetti alle pulizie […]
Secondo una simulazione della Banca d’Italia (Ruffolo 2019), tra il 2001 e il 2011 c’e’ stato un aumento del PIL del 2,3%. Senza immigrati la crescita sarebbe stata negativa, o meglio avremmo fatto grandi passi all’indietro: −4,4%.
Proiettandoci nel futuro, il crollo del PIL nel 2041, rispetto al
2021, sarebbe del 15% […]
La presenza di personale domestico straniero ha, per esempio, consentito a molte donne italiane di rientrare nel mercato del lavoro, con effetti positivi sulla presenza femminile nel mercato del lavoro stesso, sul reddito familiare, sulla posizione lavorativa e sui livelli retributivi […]
Quello che in Italia e’ stato visto e percepito come un inutile costo – l’accoglienza – e’ stato invece correttamente percepito dai tedeschi come un investimento, peraltro ripagato a breve termine. Quanto speso, se serve a inserire persone nel mercato del lavoro, significa individui che lavoreranno in regola, e quindi pagheranno tasse, con le quali finiranno per restituire in pochi anni quanto investito.
In Italia, invece, l’accoglienza (purtroppo slegata dall’integrazione) e’ stata percepita come un fastidio e un costo: si e’ fatto quasi nulla su conoscenza della lingua e della cultura e formazione professionale, e quel poco che si e’ fatto lo si e’ cancellato con i Decreti sicurezza del 2018 e del 2019, precisamente tagliando queste voci nei CAS e diminuendo l’investimento negli SPRAR gestiti dai comuni, dove questo lavoro lo si faceva con maggiore attenzione (Allievi 2018a).
Piu’ che di miopia, e’ il caso di parlare di cecita’ assoluta, non disinteressata e anzi voluta da una certa politica per dare in pasto alla pubblica opinione un facile capro espiatorio, e nemmeno percepita dal resto della politica, che di tutto cio’ – nella sua totale mancanza di capacita’ di lettura dei processi
in atto – non si e’ nemmeno accorta […]
Quando parliamo di lavoro immigrato pensiamo quasi sempre, di default, al lavoro dipendente. Ma non va dimenticato il ruolo dell’imprenditoria immigrata. I titolari di impresa nati all’estero che esercitano la loro attivita’ in Italia erano, al primo semestre del 2019, 452.204: il 14,9% dei titolari d’impresa presenti in Italia. Le citta’ con il piu’ alto numero di titolari di impresa sono Roma, Milano, Napoli e Torino, che da sole racchiudono piu’ di un quarto, il 27,5%, del totale degli imprenditori stranieri (il che significa che la realta’ dell’imprenditoria straniera e’ importante anche nel reticolo delle citta’ medie e piccole […]
Si tratta di aziende che, pur quasi sempre di piccole e piccolissime dimensioni, assumono, svolgono servizi (alcuni in nicchie di mercato prima di loro inesistenti), fanno da ponte con i paesi d’origine, creano o implementano filiere di import/export, aiutano quindi l’internazionalizzazione dell’economia italiana.

Info:
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858139868
http://www.avantionline.it/la-spirale-del-sottosviluppo-pesa-sul-futuro-dellitalia/

Lavoro/Allievi

Stefano Allievi – La spirale del sottosviluppo. Perche’ (cosi’) l’Italia non ha futuro – Laterza (2020)

Lavoriamo poco. Lavoriamo in pochi. La produttivita’ e’ bassa. I salari sono bassi. Siamo assenti da molti settori innovativi.
Non c’è una politica industriale, un orientamento generale, almeno, se non proprio una visione, cui riferirci (quand’anche c’e’, e non e’ il caso piu’ frequente, cambia a ogni cambio di governo).
Non abbiamo chiaro quali saranno in futuro i settori fondamentali in cui sara’ utile impegnarci. Il sistema dell’istruzione e quello della formazione sono sottofinanziati e scollegati dal mondo del lavoro. Non ci rendiamo nemmeno conto di chi lavora per noi (in certa misura consentendoci di fare altro) e quanto […]
La produttivita’ e’ bassissima. L’Italia e’ l’unico paese del mondo sviluppato in cui e’ ferma dagli anni Novanta: un quarto di secolo senza alcun progresso. L’innovazione c’e’, in alcuni ambiti, e lo prova l’andamento positivo dell’export in settori fortemente concorrenziali. Ma e’ largamente insufficiente al bisogno. Un mercato ingessato e poco esposto alla concorrenza e lo scarso rendimento del capitale umano […] sono parte del problema.
Come lo e’ la scarsa alfabetizzazione digitale e la lenta e difficile introduzione delle tecnologie ICT (information and communication technologies) nella vita quotidiana dei cittadini (Eurostat2019) e nell’impresa, a sua volta causata dalla dimensione familiare di troppe piccole aziende e dalla modesta capacita’ del management (Pellegrino e Zingales 2019) – o, detto altrimenti, dalla scarsita’ di meritocrazia nella selezione del management stesso e dalla sua eta’ elevata, dato che la gerontocrazia che caratterizza il paese impregna anche l’impresa […]
Il livello di istruzione degli occupati classificati come manager (imprenditori e alta dirigenza) nel nostro paese e’ aumentato negli ultimi anni, ma il differenziale rispetto agli altri paesi europei e’ ancora oggi enorme. Le classifiche Eurostat sono istruttive: nel 2018, il 26,5% dei manager italiani e’ in possesso di un titolo di istruzione terziario (nel 2006 era il 14,5%), mentre il 26,7% e’ in possesso di un titolo di scuola dell’obbligo (nel 2006 era il 39,2%). La media europea (UE 28) ci restituisce un quadro molto diverso: ben il 58,2% dei manager risulta laureato (piu’ del doppio che in Italia!) e solo l’8,9% ha un titolo di istruzione obbligatoria (un terzo rispetto all’Italia!). Differenze impressionanti, che il primo a non voler vedere e’ il mondo stesso dell’impresa, perche’ significherebbe mettere in discussione se’ stesso e le proprie capacita’. Sempre dimostrate dall’esistenza stessa delle imprese: se ci sono e producono utili, l’imprenditore tende comprensibilmente a considerarsi bravo. Piu’ raramente e’ capace di ammettere che potrebbe essere piu’ bravo, se migliorasse, tra le altre cose, la dotazione di capitale umano dell’impresa, a cominciare dal proprio, per continuare con quello dei propri dipendenti.

Info:
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858139868
http://www.avantionline.it/la-spirale-del-sottosviluppo-pesa-sul-futuro-dellitalia/