Economia di mercato/Undiemi

Lidia Undiemi – Il ricatto dei mercati. Difendere la democrazia, l’economia reale e il lavoro dall’assalto della finanza internazionale – Ponte alle Grazie (2014)

La storia del marketing del nostro Paese e’ idealmente suddivisibile in tre periodi: quello pioneristico (1945-1960), caratterizzato dalla ricostruzione post bellica e dal rilancio del libero scambio, in cui l’obiettivo principale del marketing era quello di spingere la produzione di massa sul presupposto che l’offerta avrebbe determinato la domanda di beni e servizi; il periodo classico (1960-1975) che vede il consumatore, non piu’ l’impresa, al centro di un universo commerciale che oramai deve fare i conti con un eccesso di offerta che richiede la realizzazione di adeguate reti di vendita e di comunicazione basate sull’analisi del comportamento dei clienti; il terzo, detto della competizione, caratterizzato dalla saturazione dei mercati e dove il profitto delle aziende e’ sostanzialmente legato alla loro capacita’ di sottrarre quote di mercato ai concorrenti, o addirittura di eliminare gli stessi mediante aggressive operazioni di acquisizione, percorso poi intrapreso su larga scala dalle grandi multinazionali.

Info:
https://www.antimafiaduemila.com/libri/economia/930-il-ricatto-dei-mercati.html
https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/10/20/libri-lidia-undiemi-vi-racconto-il-ricatto-dei-mercati-e-quello-sulleuro/303203/
https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-spread_intervista_a_lidia_undiemi_autrice_del_libro_profetico_il_ricatto_dei_mercati/5496_24172/

Societa’/Banti

Il culto della performance e del successo individuale e’ diventato la proiezione concreta della brutale affermazione della Thatcher secondo cui «la societa’ non esiste».
Non e’ che non esista: non deve esistere. O meglio, non deve esistere la socialita’, la cooperazione, l’identita’ collettiva. Esistono individui singoli. E sono o pedine in una scacchiera, anonime, sacrificabili; o individui di successo […]
L’esaltazione delle virtu’ imprenditoriali, delle virtu’ del mercato, della competizione, del profitto, ha assunto forme dirette e indirette. E queste ultime sono, in fondo, le piu’ efficaci. L’idea che ogni esperienza umana, ogni attivita’ professionale, ogni forma del sapere possa essere tradotta in una competizione che ha come posta un compenso monetario risale ai primordi della televisione e ha, naturalmente, nello spettacolo degli sport professionistici (a loro volta determinanti per i palinsesti dei mezzi di comunicazione di massa) un modello fondamentale.
Col passare del tempo le trasmissioni di intrattenimento basate su una competizione tra concorrenti hanno occupato parti crescenti dei palinsesti televisivi: competizioni canore, competizioni di aspiranti chef, competizioni in giochi surreali, competizioni in giochi disgustosi, competizioni basate sulle conoscenze o sulla memoria, hanno monopolizzato l’attenzione del pubblico.
E implicitamente hanno avvalorato l’idea che la competizione archetipica, quella combattuta dagli imprenditori sul libero mercato, sia il migliore dei modelli ai quali ci si puo’ ispirare […]
Le trasmissioni «di competizione» non vogliono offrire un’accurata trasposizione simbolica del sistema di mercato, ma vogliono magnificare le qualita’ positive astratte di chi vince la competizione: e in definitiva suggeriscono che vincere, avere successo, e’ cio’ che veramente conta. Il tutto «garantito», per cosi’ dire, dalle vere star di questi format televisivi, che non sono tanto i concorrenti (i quali hanno una breve notorieta’ per lo spazio della competizione, e poi spariscono), quanto i giudici, che nella finzione narrativa ricoprono questo ruolo per le loro grandi qualita’ professionali, certificate dal potere anonimo di una qualche invisibile entita’ superiore che li ha scelti.
Il potere assoluto col quale questi giudici emettono i loro verdetti e’ apprezzato dal pubblico, che ne e’ rassicurato e che puo’ scegliere tra referees dal profilo militaresco e repressivo e referees dal profilo piu’ gentilmente paternalistico […]
«Senza rendercene conto, senza aver mai deciso di farlo, siamo passati dall’avere un’economia di mercato all’essere una societa’ di mercato. La differenza e’ questa: un’economia di mercato e’ uno strumento – prezioso ed efficace – per organizzare l’attivita’ produttiva. Una societa’ di mercato e’ un modo di vivere in cui i valori di mercato penetrano in ogni aspetto dell’attivita’ umana. Un luogo dove le relazioni sociali sono trasformate a immagine del mercato».
E cosi’, per esempio, le unita’ sanitarie diventano «aziende». I loro amministratori, scelti dai politici, sono – in primo luogo – dei contabili che devono far quadrare un (magro) bilancio. Gli istituti di istruzione sono sottoposti a valutazioni numeriche sulla base di un insieme di variabili che qualche team ha predeterminato in modo da poter alla fine stilare una classifica (come se ci fosse il campionato degli istituti di istruzione o delle universita’). Il sapere scientifico si misura in «crediti» […]
Passando poi rapidamente dal micro al macro, e’ inevitabile osservare che i paesi stessi e le loro economie sono valutati da entita’ di cui si accetta l’autorevolezza senza neanche chiedersi da chi siano composte (Moody’s; Standard & Poor’s; Fitch Ratings); spesso senza neanche sapere che sono aziende private, una delle quali (Moody’s) quotata in Borsa; ma subendone collettivamente le valutazioni come se fossero i verdetti dell’oracolo.
In un contesto di questo tipo, solo gli eroi vincenti hanno il diritto di emergere, di essere conosciuti per nome e cognome. Tutti gli altri sono numeri. Statistiche. A volte statistiche cinicamente redatte: quanti morti ci possiamo permettere prima di dover fare una seria manutenzione delle infrastrutture? Quanti contagi ci possiamo permettere per consentire agli imprenditori di riaprire le loro attivita’ durante la pandemia? Quanti bambini e bambine possiamo far ammalare, rimandandoli a scuola al piu’ presto possibile, in modo che le mamme possano rientrare in fabbrica o in ufficio?

Info:
https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/la-fragile-democrazia-dei-follower-il-like-al-posto-del-voto-atxsrm5k
https://www.laterza.it/wp-content/uploads/recensioni/banti-5.pdf
https://www.letture.org/la-democrazia-dei-followers-neoliberismo-e-cultura-di-massa-alberto-mario-banti
https://www.pandorarivista.it/articoli/la-democrazia-dei-followers-di-alberto-mario-banti/
https://www.lacittafutura.it/recensioni/la-democrazia-dei-followers

Lavoro/Saraceno

Francesco Saraceno – La riconquista. Perche’ abbiamo perso l’Europa e come possiamo riprendercela – Luiss (2020)

Secondo uno slogan che e’ a lungo andato di moda, con la flexicurity si dovrebbe passare dalla protezione del lavoro a quella del lavoratore.
Se sulla carta sembra una strategia vincente (si aumenta la competitivita’ dell’impresa senza nuocere al lavoratore), l’efficacia della flexicurity e’ in realta’ oggetto di dibattito tra gli economisti.
Essa riposa infatti su di una nozione molto restrittiva del rapporto di lavoro, trattato come qualunque altra merce, e ridotto a un contratto che puo’ essere sciolto a piacimento senza incorrere in costi eccessivi.
In realta’, l’esperienza di Paesi come la Germania e il Giappone mostra che rapporti di lavoro stabili consentono di annodare un insieme di relazioni, di creare competenze specifiche, che hanno un ruolo di primo piano nello spiegare la crescita della produttivita’.
Quindi, non e’ affatto detto che spezzettare e accorciare i rapporti di lavoro sia uno stimolo alla crescita e alla competitivita’. Ma anche prescindendo da considerazioni di ordine generale, nel contesto europeo la flexicurity ha rapidamente perso un pezzo, il “-curity”.
Nella gran parte dei Paesi europei le riforme dei mercati del lavoro si sono limitate ad aumentare la flessibilita’.
In un contesto di stagnazione della spesa sociale, la protezione del lavoratore licenziato e’ stata spesso trascurata, come anche l’investimento nelle politiche attive del lavoro.
Queste o erano assenti nelle riforme, o quando erano presenti sono state sottofinanziate, vittime di tagli e austerita’. Quasi ovunque, a partire dalla Germania, la precarieta’ del lavoro e’ aumentata e la protezione dei lavoratori diminuita.

Info:
https://www.pandorarivista.it/articoli/la-riconquista-perche-abbiamo-perso-l-europa-e-come-possiamo-riprendercela-di-francesco-saraceno/
https://www.rivistailmulino.it/a/la-riconquista
https://www.europainmovimento.eu/europa/perche-abbiamo-perso-l-europa-e-come-possiamo-riprendercela.html
https://www.micromega.net/leuropa-vista-da-un-riformista/