Capitalismo/Milanovic

Branko Milanovic – Capitalismo contro capitalismo. La sfida che decidera’ il nostro futuro – Laterza (2020)

Quando il trasporto delle merci era pericoloso e costoso, la produzione e il consumo dovevano coincidere geograficamente e le comunità consumavano cio’ che producevano […]
Poi venne la rivoluzione industriale, che abbasso’ i costi di trasporto delle merci. Questo rendeva possibile la spedizione di prodotti verso destinazioni lontane e diede origine alla prima globalizzazione, o primo «spacchettamento»(unbundling), come lo definisce Baldwin: le merci si producevano «qui» e si consumavano «la’». Questo fenomeno ha anche fornito all’economia praticamente tutti i concetti e gli strumenti intellettuali che usiamo ancora oggi.
Il primo spacchettamento creo’ una nuova preoccupazione per la bilancia commerciale nazionale, introducendo cosi’ il mercantilismo […]
Praticamente tutti gli strumenti dell’economia moderna sono ancora radicati nel modo in cui e’ avvenuto il primo spacchettamento, le cui principali caratteristiche sono state (a) il commercio di beni, (b) gli investimenti esteri diretti (che, in assenza di altri mezzi per garantire i diritti di proprieta’ in luoghi lontani, hanno portato al colonialismo) e (c) gli Stati-nazione […]
Oggi, in quello che Baldwin identifica come il secondo spacchettamento (e la seconda globalizzazione), tutti e tre gli attori principali sono cambiati. Ora, il controllo e il coordinamento della produzione si fanno «qui», ma la produzione effettiva delle merci avviene «la’».
Notiamo la differenza: prima si spacchettano la produzione e il consumo, poi la produzione stessa. Lo spacchettamento della produzione e’ stato reso possibile dalla rivoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che ha permesso alle aziende di progettare e controllare i processi dal centro e di estendere la produzione a centinaia di unita’ o a subappaltatori sparsi in tutto il mondo. I costi minimi del trasporto delle informazioni (in sostanza, la capacita’ di coordinare e controllare indipendentemente dalla distanza) hanno rappresentato per il secondo spacchettamento cio’ che il basso costo del trasporto marittimo ha significato per il primo. Ora, i principali attori sono (a) l’informazione e il controllo (invece dei beni), (b) le istituzioni coercitive globali (invece del colonialismo), e (c) le aziende (invece delle nazioni) […]
Lo spacchettamento definitivo (almeno dal punto
di vista odierno) arrivera’ con la capacita’ del lavoro di muoversi senza soluzione di continuita’. Cio’ avverra’ quando i costi di spostamento della manodopera o del telelavoro scenderanno. Per le operazioni che richiedono la presenza fisica di una persona, il costo del suo spostamento temporaneo in un luogo diverso e’ ancora elevato. Ma se la necessita’ della presenza fisica di un lavoratore viene risolta attraverso il controllo da postazione remota, come gia’ accade con i medici che eseguono interventi chirurgici a distanza utilizzando dei robot, allora anche il lavoro si potra’ globalizzare.
Il terzo spacchettamento, quello della manodopera (come fattore nel processo produttivo) dalla sua collocazione fisica, ci fara’ pensare alle migrazioni e ai mercati del lavoro in modo molto diverso: se compiti che oggi richiedono la presenza fisica di un lavoratore potranno essere svolti a distanza da una persona in un qualsiasi punto del globo, allora la migrazione dei lavoratori diventera’ molto meno importante.

Info:
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858135846
https://www.doppiozero.com/materiali/branko-milanovic-capitalismo-contro-capitalismo
https://sbilanciamoci.info/branko-milanovic-capitalismo-contro-capitalismo/

Economia di mercato/Stiglitz

Joseph E. Stiglitz – Riscrivere l’economia europea. Le regole per il futuro dell’Unione – il Saggiatore (2020)

Eccoci in un mondo nuovo in cui le grandi multinazionali hanno una potenza paragonabile, per molti versi, a quella degli Stati-nazione: influiscono sulle leggi, contribuiscono a distruggere l’ambiente e indeboliscono addirittura il senso di autodeterminazione.
Le tendenze nazionaliste oggi presenti in tanti movimenti si spiegano, in parte, come reazione a questo stato di cose.
Le multinazionali sono riuscite a far passare politiche
che permettono loro maggiori profitti e un maggior potere di mercato, a danno dell’interesse generale della societa’, come si vede a proposito del diritto alla privacy, della proprieta’ dei dati o dei cibi privi di Ogm […]
La globalizzazione avrebbe dovuto creare posti di lavoro e accelerare e consolidare la crescita economica, ma in realta’ non ha fatto ne’ l’una ne’ l’altra cosa: semmai, spesso ha fatto il contrario. Inoltre, ha ridotto il potere negoziale dei lavoratori e innescato una concorrenza regolatoria al ribasso tra i paesi.
Non era affatto inevitabile che la globalizzazione avesse tutte queste conseguenze negative: l’integrazione dei mercati globali e’ potenzialmente in grado di creare ricchezza e benessere.
La globalizzazione, pur essendo stata presentata al pubblico come impegno a creare una effettiva parita’ di condizioni sul mercato, in realta’ e’ stata gestita per conto e nell’interesse dei grandi gruppi multinazionali.
Il risultato e’ un sistema che offre spazi enormi all’elusione e all’evasione fiscale, tende a creare concentrazioni di potere di mercato e incanala verso l’alto i benefici della globalizzazione.
Per le grandi multinazionali e per la ristretta minoranza mondiale di superricchi, la globalizzazione ha funzionato benissimo. Gli elettori europei e americani, a vari livelli, lo hanno capito. E quando guardano verso figure come Trump esprimono,
sia pure in modo sbagliato, un rifiuto dello status quo.

Info:
https://www.linkiesta.it/2020/05/nobel-stigliz-come-riscrivere-economia-europea/
http://temi.repubblica.it/micromega-online/al-capezzale-dell-europa/
https://www.ilsaggiatore.com/libro/riscrivere-leconomia-europea/

Lavoro/Allievi

Stafano Allievi – La spirale del sottosviluppo. Perche’ (cosi’) l’Italia non ha futuro – Laterza (2020)

L’Italia, di fatto, e’ messa male.
Il PIL italiano e’ aumentato del 45,2% negli anni Settanta, del 26,9% negli Ottanta, del 17% negli anni Novanta, ma solo del 2,5% negli anni Duemila: una dinamica che non ha paragoni negli altri paesi sviluppati.
Peggio ancora: l’aumento della produttivita’ – un indicatore chiave – e’ precipitato dal 2,8% degli anni Settanta allo zero dei Duemila”.
Dati che dicono molto, anche se non tutto […]
La spesa in cura, assistenza e previdenza: oltre un quarto del PIL, 28,4%, [e’] in Italia, in linea con quella dell’Unione Europea, che e’ del 27,1%. Ma con una ripartizione interna drammaticamente diversa: in Italia il 16,4% va in pensioni,l’8,2% in sanita’ e il 3,8% in protezione sociale e supporto al reddito, nella UE si tratta rispettivamente del 12,3%, del 10% e del 4,7%. L’Italia spende l’1,6% del PIL in trasferimenti finanziari a bambini e famiglia, la media europea e’ del 2,4%; i nostri paesi di riferimento (Francia, Germania e Regno Unito) spendono il doppio di noi.
Siamo al diciassettesimo posto in Europa per spesa pubblica legata alla famiglia e al primo per pensioni di vecchiaia e reversibilita’: qualcosa vorra’ pur dire.

Info:
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858139868
http://www.avantionline.it/la-spirale-del-sottosviluppo-pesa-sul-futuro-dellitalia/

Lavoro/Ferrera

Maurizio Ferrera – La societa’ del Quinto Stato – Laterza (2019)

Le societa’ europee hanno ormai assunto un profilo nettamente post-industriale.
Nelle loro economie e’ costantemente cresciuto il peso del settore terziario, soprattutto in termini occupazionali.
Con il volgere del nuovo secolo, in tutta l’area OCSE l’occupazione terziaria ha superato quella industriale di un fattore pari a due (o persino tre) a uno. Piu’ in generale, sono profondamente cambiate le strutture del mercato e della famiglia, nonche’ i loro rapporti con il Welfare State […] L’economia dei servizi e’ governata da una logica diversa da quella dell’industria. La principale differenza e’ che nell’ambito dei servizi e’ molto più difficile conseguire aumenti di produttivita’ – un problema che ha conseguenze di rilievo per il mercato del lavoro. Durante l’epoca dell’espansione industriale, gli incrementi di produttivita’ legati a innovazioni tecnologiche rendevano possibile combinare la crescita dei salari con la diminuzione dei prezzi; l’aumento della domanda di beni che ne derivava generava a sua volta nuova occupazione. Tale circolo virtuoso e’ invece piu’ difficile da attivare nel settore terziario, dove i margini di innovazione tecnologica sono molto piu’ ristretti. La riduzione della produttivita’ si e’ cosi’ tradotta in tassi di crescita piu’ bassi.

Info:
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858139790
https://www.pandorarivista.it/articoli/la-societa-del-quinto-stato-di-maurizio-ferrera/
https://maurizioferrera.wordpress.com/2018/07/16/il-quinto-stato/
https://www.corriere.it/cultura/19_settembre_17/quinto-stato-serve-nuovo-welfare-proposte-maurizio-ferrera-585a6428-d96a-11e9-8812-2a1c8aa813a3.shtml

Economia di mercato/Kelton

Stephanie Kelton – La Teoria Monetaria Moderna per un’economia al servizio del popolo – Fazi (2020)

Falchi del deficit o colombe del deficit.
I falchi erano gli integralisti. Prevalentemente repubblicani, ma non solo, i falchi guardavano ai disavanzi fiscali come alla prova schiacciante di una clamorosa mala gestione delle nostre finanze pubbliche. I bilanci devono essere in pareggio. Punto. Qualsiasi squilibrio tra spese e tassazione gli faceva drizzare i capelli. Paventavano un’incombente crisi del debito e reclamavano un’azione rapida per frenare il deficit.
L’etichetta di “falchi” stava a simboleggiare la loro determinazione – almeno retorica – a voler riportare il bilancio in pareggio e azzerare il debito nazionale.
I falchi schernivano i loro avversari, le colombe del deficit, accusandoli di essere troppo accondiscendenti (per l’appunto, pacifici come colombe) nei confronti della minaccia posta dall’accumularsi del debito pubblico.
Secondo i falchi la colpa era da rinvenire soprattutto nei programmi per la protezione sociale – Social Security, Medicaid e Medicare –, mentre le colombe additavano come principali responsabili del debito nazionale i tagli alle tasse per i ricchi e le guerre da migliaia di miliardi di dollari […]
Entrambi consideravano le prospettive fiscali a lungo termine un problema che doveva essere risolto; le loro differenze si riducevano a un disaccordo di fondo su chi (e cosa) ci avesse messo in questo pasticcio e su quanto velocemente avremmo dovuto agire per riparare il danno […]
Quando non si ha l’opzione di una svalutazione esterna (cioe’ della moneta), i paesi perseguono spesso una svalutazione interna come strada per provare a “vincere” nel commercio. Il termine tecnico neoliberale utilizzato per indicare questa particolare strategia e’ riforme strutturali.
Un modo educato di descrivere un’agenda volta a ridurre il costo del lavoro (salari e pensioni) al fine di aumentare la competitivita’ riducendo i costi di produzione. In sostanza, cio’ significa che, invece di indebolire la moneta, un paese decide di indebolire il lavoro.
L’emblema europeo di questa strategia e’ la Germania. Dopo che il governo tedesco ha intrapreso tale strategia all’inizio degli anni Duemila essa e’ riuscita a trasformare i suoi prolungati deficit commerciali in enormi surplus commerciali

Info:
http://osservatorioglobalizzazione.it/recensioni/il-mito-del-deficit-kelton/
https://www.lafionda.org/2020/09/27/il-mito-del-deficit/
https://fazieditore.it/catalogo-libri/il-mito-del-deficit/
https://sinistrainrete.info/articoli-brevi/19308-brian-cepparulo-il-mito-del-deficit-stephanie-kelton-e-la-nuova-frontiera-della-mmt.html

Europa/Stiglitz

Joseph E. Stiglitz – Riscrivere l’economia europea. Le regole per il futuro dell’Unione – il Saggiatore (2020)

Dal 1999 al 2008, in Germania, il costo unitario del lavoro nel settore manifatturiero (trainato dalle esportazioni) e’ diminuito del 9 per cento.
Tra il 2000 e il 2005 la domanda interna tedesca e’ addirittura diminuita in termini reali. Com’era prevedibile, nello stesso periodo il tasso medio annuo di crescita nominale dei ricavi delle importazioni tedesche dagli altri paesi dell’Eurozona e’ a sua volta bruscamente diminuito.
L’approccio tedesco si e’ tradotto in una vera e propria svalutazione interna, effettuata nell’arco di un decennio e resa possibile da un ampio consenso sociale. I sindacati dei lavoratori hanno scelto la moderazione salariale per salvaguardare il numero assoluto dei posti lavoro, accettando un calo delle retribuzioni. E le imprese ne hanno raccolto i risultati, in termini di aumento dei ricavi.
L’opinione pubblica tedesca si e’ pavoneggiata per i successi della propria macchina dell’export, ammirata in tutto il mondo.
E le leggi dell’Unione europea, che vietano l’erogazione di sussidi a singole aziende, non proibivano questa strategia di assistenza su larga scala a chi e’ in situazioni di bisogno.
E’ stato questo sostegno a spianare la strada alle riduzioni di salari e redditi. Ma queste ultime hanno avuto ripercussioni anche fuori della Germania. Il fatto che il governo offrisse alla societa’ un cuscinetto per attutire le conseguenze peggiori dovute ai salari e ai redditi bassi produceva effetti non molto lontani da quelli che sarebbero risultati dall’erogazione di puri e semplici sussidi alle imprese, che sarebbero stati tacciati di concorrenza sleale e forse perfino vietati dalle regole europee sugli aiuti di Stato.
Le profonde spaccature nell’Eurozona erano praticamente preordinate. L’atteggiamento tedesco era una riedizione delle politiche di beggar-thy-neighbor [impoverisci il tuo vicino] che avevano afflitto il sistema delle valute in Europa negli anni novanta (e il mondo dopo lo scoppio della Grande depressione).
Anziche’ deprezzare la propria moneta per promuovere le esportazioni, la Germania ora svalutava una variabile che, nonostante l’euro, poteva ancora controllare direttamente: il prezzo del proprio lavoro.

Info:
https://www.linkiesta.it/2020/05/nobel-stigliz-come-riscrivere-economia-europea/
http://temi.repubblica.it/micromega-online/al-capezzale-dell-europa/
https://www.ilsaggiatore.com/libro/riscrivere-leconomia-europea/

Societa’/Allievi

Stefano Allievi – La spirale del sottosviluppo. Perche’ (cosi’) l’Italia non ha futuro – Laterza (2020)

Secondo l’International Migration Outlook dell’OCSE (OECD 2019), gia’ dal 2016, con nemmeno lo 0,8% della popolazione del pianeta, l’Italia e’ all’ottavo posto nel mondo per numero di emigrati verso paesi industrializzati.
Il livello di istruzione degli emigrati italiani e’ elevato, molto piu’ della media degli italiani che rimangono in Italia. Hanno un titolo di studio medio-alto (il 52,6% possiede almeno il diploma) e, contrariamente a quanto accade in Italia, la differenza di genere e’ a favore degli uomini: il 55% di laureati contro il 45% delle donne.
I laureati sono in crescita rapida e costante: nel 2004 erano circa il 10% degli expat italiani, oggi sono quasi un terzo […]
Perche’ partono? Non solo per cercare e trovare lavoro.
Detta cosi’ e’ una spiegazione riduttiva.
Partono anche perche’ non trovano lavoro adeguato in Italia, o perche’ lo trovano a salari piu’ bassi, con condizioni piu’ incerte, in situazioni piu’ precarie, con prospettive di mobilita’ ascendente minori, con progressioni di carriera piu’ lente […]
Oltre al lavoro, pero’, contano anche altri fattori.
Un welfare piu’ protettivo ed efficiente, ed effettivamente universalistico; che vuol dire, anche a parita’ di condizioni di lavoro e di salario: scuola per i figli, possibilita’ di lavorare per le donne che sono anche madri (e infatti le donne che partono sono in aumento, e quasi equivalgono agli uomini, ormai), sicurezza e tranquillita’ per il futuro. Un ambiente di lavoro e di vita piu’ meritocratico e attento alla qualita’, meno immobile, con regole certe, e una maggiore attenzione alla parita’ di genere […]
Un laureato non si trova a proprio agio, e ha meno probabilita’ di essere valorizzato, in un paese in cui il suo ministro dell’Istruzione e’ un diplomato. Un brillante studente con un master in economia non fa volentieri il sottoposto di un dirigente diplomato con una visione piu’ ristretta della sua – o lavora per sostituirlo (sempre che non sia gia’ il dirigente a non volerlo, precisamente per evitare di essere sostituito).
Un individuo che ha scavato le sottigliezze del linguaggio vive con difficolta’ le grossolanita’ del parlato comune, e ancor piu’ la vuotezza imbarazzante del parlato politico della sua classe dirigente.
Chi ha imparato ad amare la bellezza non sopporta l’offensiva di una bruttezza dilagante. Chi si e’ abituato con fatica a ragionare sottilmente tra alternative possibili si trova in minoranza in un paese dove viene valorizzata mediaticamente e politicamente la vuotezza dello slogan privo di contenuto.
E potremmo continuare.
Ricchezza chiama ricchezza. Bellezza chiama bellezza. Cultura chiama cultura. Apertura mentale chiama apertura mentale. Cosmopolitismo chiama cosmopolitismo. Intelligenza chiama intelligenza.
In Italia, spesso, si ha la sensazione che non rispondano.

Info:
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858139868
http://www.avantionline.it/la-spirale-del-sottosviluppo-pesa-sul-futuro-dellitalia/

Lavoro/Piketty

Thomas Piketty – Capitale e ideologia. Ogni comunita’ ha bisogno di giustificare le proprie disuguaglianze – La Nave di Teseo (2020)

Quali che siano i limiti della cogestione cosi’ come viene attuata in area tedesca e scandinava, tutta la documentazione disponibile suggerisce comunque che tali norme hanno consentito un certo riequilibrio del potere tra dipendenti e azionisti, assicurando uno sviluppo economico e sociale piu’ armonioso e in definitiva anche una maggiore efficienza all’interno delle societa’ interessate (almeno, rispetto alle situazioni in cui i dipendenti non hanno alcuna rappresentanza nei consigli di amministrazione).
A quanto risulta, e’ soprattutto il fatto che i sindacati partecipino alla definizione delle strategie aziendali di lungo termine e dispongano di tutte le informazioni e dei documenti necessari per decidere, a consentire un maggiore coinvolgimento dei dipendenti e una piu’ elevata produttivita’ del sistema aziendale […]
La cogestione e’ una delle forme piu’ elaborate e durevoli con cui, a partire dalla meta’ del XX secolo, si ufficializza un nuovo equilibrio nei rapporti tra capitale e lavoro. Un equilibrio che e’ il risultato di un lungo processo di lotte sindacali, operaie e politiche, iniziato fin dalla meta’ del XIX secolo […]
Nell’area tedesca e scandinava (per la precisione in Germania, Austria, Svezia, Danimarca e Norvegia), i rappresentanti dei dipendenti hanno tra un terzo e la meta’ dei seggi e dei diritti di voto all’interno dei consigli di amministrazione delle aziende (almeno, in quelle piu’ grandi), indipendentemente da qualsiasi altra partecipazione al capitale aziendale dei dipendenti. Nel caso della Germania, paese precursore di tali riforme, il sistema e’ operativo fin dai primi anni cinquanta del Novecento.
Fino agli anni dieci del Duemila, nonostante i successi ampiamente riconosciuti del modello sociale e industriale tedesco e nordeuropeo, caratterizzato da alti livelli di qualità della vita e produttivita’ e da disuguaglianze economiche contenute, gli altri paesi non ne hanno seguito l’esempio. Nel Regno Unito come negli Stati Uniti, in Francia come in Italia o in Spagna, in Giappone come in Canada o in Australia, le aziende private hanno continuato a essere gestite secondo le immutabili regole delle societa’ per azioni.

Info:
https://www.internazionale.it/opinione/annamaria-testa/2020/06/24/thomas-piketty-capitale-ideologia
https://www.aggiornamentisociali.it/articoli/capitale-e-ideologia-intervista-a-thomas-piketty/
https://www.ilmessaggero.it/libri/capitale_e_ideologia_il_nuovo_saggio_di_piketty_star_dell_economia_pop-5299153.html
http://temi.repubblica.it/micromega-online/piketty-il-capitalismo-non-e-piu-in-grado-di-giustificare-le-sue-disuguaglianze/
https://www.huffingtonpost.it/2018/09/08/lincubo-social-nativista-italiano-potrebbe-molto-rapidamente-riguardarci-da-vicino-piketty-avverte-le-democrazie-europee_a_23520935/

Europa/Stiglitz

Joseph E. Stiglitz – Riscrivere l’economia europea. Le regole per il futuro dell’Unione – il Saggiatore (2020)

Nel 2008 una crisi finanziaria, inizialmente quasi impercettibile e poi inarrestabile, ha innescato in Europa quella che e’ diventata una crisi prima economica e poi sociale.
Tutte le crisi prima o poi passano: ma, nel valutare un sistema economico, cio’ che conta non e’ che la crisi sia finita, ma il tempo che ci vuole per arrivare a una completa ripresa, le sofferenze inflitte tanto a lungo ai cittadini e la vulnerabilita’ del sistema a un’altra crisi.
In Europa le conseguenze della crisi finanziaria e della recessione sono state inutilmente gravi, lunghe e dolorose. Il divario tra la condizione attuale dell’economia e quella in cui si sarebbe trovata in assenza di crisi si misura ormai in trilioni di euro. E ancor oggi, un decennio dopo lo scoppio della crisi, la crescita rimane anemica e fragile.
Il fenomeno che meglio di ogni altro compendia gli effetti della crisi finanziaria del 2008 e’ la disoccupazione, che e’ aumentata in quasi tutti i paesi, e in alcuni di essi ha raggiunto livelli vertiginosi.
Dieci anni dopo, in gran parte dell’Unione la disoccupazione rimane inaccettabilmente alta, ma i leader europei continuano a preoccuparsi degli eventuali costi futuri dell’aumento del debito e del disavanzo in molti paesi, e a disinteressarsi delle conseguenze devastanti della crisi per tanti europei […]
Oggi un gran numero di giovani non ha alcuna possibilita’ di trovare un lavoro sicuro o gratificante in linea con le proprie capacita’ e aspirazioni: tra coloro che hanno meno di 25 anni, e quelli che non hanno completato gli studi secondari superiori, il tasso di disoccupazione medio europeo e’ il doppio di quello complessivo: rispettivamente 18,5 e 17 per cento.
E’ stato un decennio di occasioni perdute, nel corso del quale la disoccupazione di massa e’ diventata causa e al tempo stesso effetto della disuguaglianza. Molti lavoratori anziani che avrebbero potuto continuare a dare un contributo alla societa’ non ne hanno avuto la possibilita’; i giovani hanno dovuto fare a meno di quella prima fase di sviluppo delle competenze che e’ essenziale per la loro formazione e che incidera’ sulla loro crescita.

Info:
https://www.linkiesta.it/2020/05/nobel-stigliz-come-riscrivere-economia-europea/
http://temi.repubblica.it/micromega-online/al-capezzale-dell-europa/
https://www.ilsaggiatore.com/libro/riscrivere-leconomia-europea/

Lavoro/Allievi

Stefano Allievi – La spirale del sottosviluppo. Perche’ (cosi’) l’Italia non ha futuro – Laterza (2020)

Senza immigrati il sistema economico italiano avrebbe un’implosione e saremmo, tutti, enormemente piu’ poveri […] se, educatamente, facessero quanto, meno educatamente, vorrebbero alcuni: e tornassero davvero a casa loro.
Quanto PIL in meno ci sarebbe.
Quante aziende e famiglie senza lavoratori.
Gli immigrati, come abbiamo visto, fanno lavori non qualificati nel 35,6% dei casi, mentre gli italiani nell’8,2% (Fondazione Leone Moressa 2017). Quindi, se sparissero, sono questi i posti che lascerebbero liberi. Quanti disoccupati o NEET italiani li sostituirebbero volentieri? Anche ipotizzando una qualche crescita dei salari nei rispettivi settori? Quanti farebbero i domestici o le badanti, i braccianti o i manovali, i lavapiatti o gli addetti alle pulizie […]
Secondo una simulazione della Banca d’Italia (Ruffolo 2019), tra il 2001 e il 2011 c’e’ stato un aumento del PIL del 2,3%. Senza immigrati la crescita sarebbe stata negativa, o meglio avremmo fatto grandi passi all’indietro: −4,4%.
Proiettandoci nel futuro, il crollo del PIL nel 2041, rispetto al
2021, sarebbe del 15% […]
La presenza di personale domestico straniero ha, per esempio, consentito a molte donne italiane di rientrare nel mercato del lavoro, con effetti positivi sulla presenza femminile nel mercato del lavoro stesso, sul reddito familiare, sulla posizione lavorativa e sui livelli retributivi […]
Quello che in Italia e’ stato visto e percepito come un inutile costo – l’accoglienza – e’ stato invece correttamente percepito dai tedeschi come un investimento, peraltro ripagato a breve termine. Quanto speso, se serve a inserire persone nel mercato del lavoro, significa individui che lavoreranno in regola, e quindi pagheranno tasse, con le quali finiranno per restituire in pochi anni quanto investito.
In Italia, invece, l’accoglienza (purtroppo slegata dall’integrazione) e’ stata percepita come un fastidio e un costo: si e’ fatto quasi nulla su conoscenza della lingua e della cultura e formazione professionale, e quel poco che si e’ fatto lo si e’ cancellato con i Decreti sicurezza del 2018 e del 2019, precisamente tagliando queste voci nei CAS e diminuendo l’investimento negli SPRAR gestiti dai comuni, dove questo lavoro lo si faceva con maggiore attenzione (Allievi 2018a).
Piu’ che di miopia, e’ il caso di parlare di cecita’ assoluta, non disinteressata e anzi voluta da una certa politica per dare in pasto alla pubblica opinione un facile capro espiatorio, e nemmeno percepita dal resto della politica, che di tutto cio’ – nella sua totale mancanza di capacita’ di lettura dei processi
in atto – non si e’ nemmeno accorta […]
Quando parliamo di lavoro immigrato pensiamo quasi sempre, di default, al lavoro dipendente. Ma non va dimenticato il ruolo dell’imprenditoria immigrata. I titolari di impresa nati all’estero che esercitano la loro attivita’ in Italia erano, al primo semestre del 2019, 452.204: il 14,9% dei titolari d’impresa presenti in Italia. Le citta’ con il piu’ alto numero di titolari di impresa sono Roma, Milano, Napoli e Torino, che da sole racchiudono piu’ di un quarto, il 27,5%, del totale degli imprenditori stranieri (il che significa che la realta’ dell’imprenditoria straniera e’ importante anche nel reticolo delle citta’ medie e piccole […]
Si tratta di aziende che, pur quasi sempre di piccole e piccolissime dimensioni, assumono, svolgono servizi (alcuni in nicchie di mercato prima di loro inesistenti), fanno da ponte con i paesi d’origine, creano o implementano filiere di import/export, aiutano quindi l’internazionalizzazione dell’economia italiana.

Info:
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858139868
http://www.avantionline.it/la-spirale-del-sottosviluppo-pesa-sul-futuro-dellitalia/