Capitalismo/Stiglitz

Il prezzo della disuguaglianza: Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro – Joseph Eugene Stiglitz – Einaudi (2014)

Il capitalismo moderno e’ diventato un gioco complesso, dove per vincere non basta un po’ di cervello.
Chi vince spesso possiede anche caratteristiche meno degne di ammirazione: l’abilita’ di aggirare la legge o di plasmarla a proprio beneficio, il desiderio di sfruttare gli altri, anche i poveri, e la disponibilita’ a giocare scorrettamente quando necessario.
Con le parole di uno di questi giocatori di successo, il vecchio adagio «non importa vincere o perdere, cio’ che conta e’ come si gioca» e’ spazzatura. Conta soltanto se si vince o si perde e il mercato ha un modo semplice di dimostrarlo: la quantita’ di denaro che si realizza.
Vincere il gioco della ricerca della rendita ha permesso a molti di quanti si trovavano in cima alla scala sociale di ammassare vere e proprie fortune, ma non e’ l’unico strumento attraverso il quale si ottiene e si conserva la ricchezza. Anche il sistema fiscale svolge un ruolo cruciale […]
Chi sta in alto ha fatto in modo da disegnare un sistema fiscale che gli pemettesse di pagare meno di quanto sarebbe giusto, ossia una percentuale del proprio reddito inferiore a quella dovuta da chi e’ molto piu’ povero. Definiamo regressivi i sistemi fiscali di questo tipo […]
La ricerca della rendita puo’ assumere varie forme, in virtu’ di concessioni e sussidi governativi nascosti o trasparenti, di leggi che riducono il livello di concorrenza del mercato, di un’applicazione permissiva delle leggi esistenti sulla concorrenza e di statuti che consentono ai grandi gruppi economici di avvantaggiarsi sugli altri o di trasferire i propri costi al resto della societa’.
Il termine «rendita» veniva originariamente utilizzato per descrivere le entrate dei proprietari terrieri, che le percepivano in virtu’ della terra posseduta e non per aver fatto qualcosa. Diversa e’ da sempre la situazione dei lavoratori, i cui salari ne ricompensano la fatica. Il termine «rendita» fu poi esteso per includere i profitti o rendite monopolistiche, ossia il reddito che si ricava dal semplice controllo di un monopolio.

Info:
https://www.aggiornamentisociali.it/articoli/il-prezzo-della-disuguaglianza/
https://www.ocst.ch/il-lavoro/425-approfondimenti/2181-la-disuguaglianza-il-suo-prezzo-e-cio-che-si-puo-fare-per-eliminarla
https://tempofertile.blogspot.com/2013/06/joseph-stiglitz-il-prezzo-della.html
https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/15721-joseph-stiglitz-per-combattere-le-disuguaglianze-bisogna-abbandonare-subito-le-idee-di-milton-friedman.html

Economia di mercato/Somma

Alessandro Somma – Abolire il lavoro povero – Laterza (2024)

Le manifestazioni dell’ortodossia neoliberale degli ultimi anni preannunciano invero un ritorno all’Ottocento, ovvero all’epoca in cui il lavoro era sottoposto alle medesime forme di controllo utilizzate dalle piattaforme: un controllo continuo e penetrante, caratterizzato da ritmi intensi e dalla confusione con la vita privata, svalutato e precarizzato. Ottocentesca e’ anche e soprattutto la realizzazione del «sogno del datore di lavoro di accendere e spegnere l’interruttore del lavoro senza sprecare neppure un secondo», e a monte la possibilita’ di accedere a un «deposito mobile di forza lavoro erogabile a comando e sempre nel momento giusto».
In tal senso si e’ detto che la gig economy, in quanto ordine economico a misura di lavoratori chiamati a fornire la loro prestazione «alla spina», costituisce un ritorno alla fase in cui nasce l’industria tessile inglese: quando si ricorreva al lavoro a domicilio da parte di cucitrici sostanzialmente costrette in una relazione a titolo subordinato, sebbene formalmente inquadrate come lavoratrici autonome.
E in tal senso si e’ osservato che il «luccicante mondo dell’innovazione» ci riporta a «un modello antico con cui braccianti, manovali, minatori e portuali si trovavano a fare i conti». Per non dire della circostanza che le dimensioni delle piattaforme sono alla base di dinamiche assimilabili a quelle innescate dai «monopolisti che alla fine del XIX secolo spadroneggiavano in virtù di inscalfibili rendite»

Info:
https://www.ildiariodellavoro.it/abolire-il-lavoro-povero-per-la-buona-e-piena-occupazione-di-alessandro-somma-edizioni-laterza/
https://www.glistatigenerali.com/lavoro-autonomo_dipendenti/abolire-il-lavoro-povero-il-lavoro-non-e-finito-checche-ne-dica-la-politica/
https://www.recensionedilibri.it/2024/02/03/somma-abolire-il-lavoro-povero/
https://www.sinistrainrete.info/lavoro-e-sindacato/27701-lelio-demichelis-lavoro-povero-con-vita-digitale-o-vita-povera-con-lavoro-digitale.html

Stato/Mattei

Clara E. Mattei – L’economia è politica – Fuoriscena (2023)

Se chiedete agli esperti una definizione di austerita’ vi verra’ detto che si tratta di quelle politiche economiche di taglio della spesa pubblica e aumento delle tasse.
Ecco il primo trabocchetto: la lente degli economisti e’ quella dell’aggregato, cioe’ del «tutto». Si parla di economia italiana, francese, spagnola come se fossero ognuna un’unita’ compatta. Ma, a ben guardare, questi concetti non sono che astrazioni.
Prendiamo il nostro Paese come esempio: se guardiamo alla spesa «aggregata» dello Stato italiano, non vedremo alcuna traccia di austerita’. Infatti lo Stato sta spendendo moltissimo in ambito militare e nel sostegno delle imprese (le banche per esempio) che mettono cosi’ in sicurezza i propri profitti. I numeri della spesa pubblica non calano.
Ma la questione rilevante e’ un’altra.
Non si tratta semplicemente di vedere se lo Stato spende, quanto piuttosto dove lo Stato spende o, meglio, per chi lo Stato spende. L’austerita’ non e’ una generica azione sulla spesa pubblica intesa come un tutto, e’ invece un’azione politica che agisce sulla capacita’ di spesa delle persone e quindi interviene sulla qualita’ della vita della maggioranza della popolazione, lasciando sostanzialmente protetta e intoccata quell’elite che non vive del salario e dunque principalmente del proprio lavoro ma gode di rendite (immobiliari, finanziarie ecc.) e profitti […]
Se lo Stato italiano, come la maggior parte degli Stati del mondo, aumenta la spesa militare o quella per salvare e sostenere banche e imprese in difficolta’ e al contempo taglia la spesa sociale (sanita’, scuola, trasporti, edilizia pubblica, sussidi di disoccupazione e via dicendo), sta trasferendo strutturalmente le risorse dai molti cittadini che dipendono dai salari che guadagnano ai pochissimi che vivono dei redditi da capitale generati dalla ricchezza posseduta.
In altre parole, non si tratta per gli Stati di non spendere, ma di «spendere» nella maniera «corretta», ovvero a favore dell’elite economico-finanziaria e a discapito della maggioranza della popolazione. Mentre ci curiamo in ospedali fatiscenti, studiamo in classi pollaio e facciamo file chilometriche per rinnovare la carta d’identita’, i forzieri di Leonardo, produttore di armi, e Autostrade per l’Italia (i cui azionisti sono per meta’ asset manager stranieri come Blackstone e Macquarie) traboccano di soldi delle nostre tasse.
Per la classe dei capitalisti la retorica del «non ci sono i soldi» non esiste.
Queste manovre economiche non sono solo decisioni tecniche, sono scelte profondamente politiche. Meno risorse sociali abbiamo, meno diritti abbiamo in quanto cittadini e piu’ siamo costretti a comprare tali diritti con il denaro. Cosi’ la nostra dipendenza dal mercato aumenta. Se vogliamo garantire una buona istruzione ai nostri figli, assicurarci cure mediche adeguate, una casa dignitosa, il diritto al trasporto, siamo sempre piu’ vincolati alla necessita’ di avere soldi a sufficienza, che ci possiamo procurare in un solo modo, vendendo la nostra capacita’ di lavorare in cambio di un salario.
Non per nulla i politici al governo combattono il concetto stesso di reddito di cittadinanza che, in se’, e’ potenzialmente sovversivo: rischierebbe di illuderci che soddisfare i nostri bisogni primari sia un diritto invece che l’esito intermediato dal lavoro sfruttato.

Info:
https://www.pde.it/un-libro-al-giorno/leconomia-e-politica-clara-mattei-fuoriscena/
https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/11/15/davvero-le-scelte-economiche-sono-neutrali-e-inevitabili-no-e-un-luogo-comune-il-libro-di-clara-mattei-spiega-che-in-realta-e-tutta-politica/7354313/
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2023/11/13/leconomia-e-politica-parole-antiche-per-conflitti-del-futuro/7351420/

Economia di mercato/Formenti

Carlo Formenti – Felici e sfruttati: Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro – Egea (2011)

Fino ad oggi, nessuno aveva mai immaginato che le idee potessero essere oggetto di appropriazione privata, anche perche’ la loro libera circolazione rappresentava il presupposto indispensabile di tutte le innovazioni scientifiche, tecnologiche e culturali, una sorta di «materia prima gratuita», un bene comune che – al pari di altri commons come l’aria, l’acqua, la biosfera ecc. – rappresenta una condizione primaria di esistenza del processo economico pur restandone – o meglio: dovendone necessariamente restare – al di fuori […]
1) tutte le innovazioni culturali della storia sono sempre avvenute grazie alla liberta’ di attingere al patrimonio culturale accumulato dalle generazioni precedenti, onde poterlo rielaborare creativamente […]
2) da quando esiste l’istituto della proprieta’ intellettuale – cioe’ dai primi del Settecento – i governi hanno sempre cercato di limitarne la durata temporale, allo scopo di equilibrare il diritto dei creatori di sfruttare economicamente – per un ragionevole periodo di tempo – i prodotti del proprio ingegno con il diritto dell’umanita’ di rientrare in possesso di tali prodotti per poterne inventare di nuovi.
Tutto questo finche’ gli interessi dell’industria culturale […] hanno indotto i governi a estendere a dismisura la durata e l’area di applicazione dei diritti di proprieta’ intellettuale, fino a scardinarne il senso e lo spirito originari: da garanzia temporale di equo profitto a garanzia di monopolio illimitato.
In questo modo […] siamo passati da un regime di cultura libera a un regime del permesso; ma un regime di questo genere evoca i diritti di esclusiva feudali piu’ che le leggi della libera concorrenza e del moderno mercato capitalistico, e’ il regno della rendita piuttosto che il regno del profitto.

Info:
https://www.puntopanto.it/2011/05/recensione-felici-e-sfruttati/
https://www.rifondazione.be/aurora/num30/A3020.pdf

Finanziarizzazione/Marcon

Giulio Marcon – Se la classe inferiore sapesse. Ricchi e ricchezze in Italia – People (2023)

«La classe dirigente che ha fatto l’Italia era una classe dirigente che viveva molto del prestigio locale. Aveva rapporti con le casse di risparmio locali, con i dirigenti dell’economia della comunita’, o la chiesa, la politica locale […]
Questo da’ il senso che sei classe dirigente e che ti legittimi nella comunita’ locale di riferimento.
Oggi tutto questo non c’e’ piu’. In un’epoca in cui si fa impresa facendo produrre gli abiti in Cina, si usano gli ingegneri dell’India (in India) per la gestione di un centro di calcolo e si fa gestire il proprio portafoglio finanziario da una societa’ di Londra, i Marzotto e gli Olivetti non sarebbero piu’ possibili».
I ricchi globali, senza rapporto con il territorio e la societa’, si sentono in qualche modo deresponsabilizzati […]
La seconda novita’ e’ che la finanza ha sopravanzato l’economia reale. Si diventa sempre di piu’ ricchi con la finanza che, giorno dopo giorno, ha invaso anche il territorio dell’impresa tradizionale. La finanza è globalizzazione in se’ […]
«Non c’e’ piu’ lavoro, non c’e’ piu’ industria, c’e’ solo finanza. Anche dove c’e’, i manager, i presidenti, i membri dei Consigli di amministrazione badano a portare a casa utili e non a creare posti di occupazione.
E’ molto piu’ facile fare soldi con la finanza che con un’azienda dove, su 100 milioni di fatturato, maturo 5, al massimo 10 di utile: con la finanza, se ne metto 100 in Borsa, ne porto a casa 6-7 senza battere ciglio, senza fare niente […]
La terza trasformazione – la distruzione dei valori pubblici, della collettivita’ – e’ stata causata dal modello neoliberista impostosi nelle nostre societa’ dagli anni Ottanta a oggi.
Con la riduzione del ruolo dello Stato, la svalorizzazione del lavoro (precario e senza diritti) e la privatizzazione di tutto quello che puo’ essere privatizzato, il modello neoliberista ha distrutto l’idea di pubblico, di bene comune, di istituzione, di fiscalita’, di collettivita’ in nome di un’ideologia che ha declinato nel modo piu’ efficace l’assunto di Margaret Thatcher: «Non esiste la societa’, esistono gli individui», con i loro interessi e i loro egoismi […]
Accanto a queste trasformazioni di carattere strutturale (globalizzazione e finanziarizzazione della ricchezza, distruzione dei beni pubblici), vi sono altre cause di cui tener conto e che hanno colpito in pieno anche la classe imprenditoriale: la degenerazione dell’etica, dello spirito civile e della politica come bene comune; la decadenza dell’istruzione e della formazione; l’imbarbarimento della comunicazione pubblica, prima con la tv e oggi – ancora peggio – con il web e i social; la mutazione antropologica delle societa’ del consumo (da economia di mercato a societa’ di mercato), in cui “cittadino” e’ diventato sinonimo di consumatore e “persona” sinonimo di cliente, nel trionfo di un narcisismo di massa, che da malattia individuale e’ diventata patologia sociale […]
L’eredita’ e’ sempre di piu’ la motivazione principale non solo dell’accumulazione e della conservazione della ricchezza, ma anche della crescita delle diseguaglianze. Il rendimento del capitale accumulato (ed ereditato) sale a un tasso sensibilmente superiore a quello della bassissima crescita degli ultimi decenni […]
Il che significa che chi ha ingenti patrimoni vedra’ crescere la propria ricchezza molto di piu’ non solo di chi ha unicamente redditi (che difficilmente crescono oltre il tasso di crescita dell’economia), ma anche di quella diffusa classe media proprietaria che possiede solo la casa (spesso, di modesto valore) in cui vive.
Questo implica una «gravissima diseguaglianza nella distribuzione a lungo termine…

Info:
https://altreconomia.it/se-la-classe-inferiore-sapesse-chi-sono-i-ricchi-e-perche-continuano-a-essere-ammirati/
https://www.lafionda.org/2024/01/09/se-la-classe-inferiore-sapesse/
https://www.ossigeno.net/post/se-la-classe-inferiore-sapesse
https://altreconomia.it/perche-sappiamo-cosi-poco-dei-ricchi/

Capitalismo/Magatti

Chiara Giaccardi; Mauro Magatti -Supersocieta’ – il Mulino (2022)

Gia’ negli anni ’90, quando il modello sembrava destinato a un successo senza incrinature, nei Paesi avanzati la quota di valore aggiunto distribuito al lavoro si e’ costantemente ridotta, a vantaggio dei profitti e delle rendite. Il che, concretamente, si e’ tradotto nell’aumento delle disuguaglianze e nell’indebolimento del ceto medio.
La «sovranità del consumatore» e’ stata il cavallo di Troia per legittimare la progressiva erosione del riconoscimento economico e sociale del lavoro (come dimostrano l’andamento dei salari reali e la diffusione dell’instabilità occupazionale).
Al tempo stesso, celebrata nella nuova narrazione cosmopolitica, l’accresciuta mobilita’ si e’ per molti tradotta nella condanna a rimanere vincolati in localita’ sempre piu’ cariche di tensioni, con istituzioni latitanti e un intenso senso di solitudine […]
Fintanto che il modello economico e’ riuscito a garantire la crescita – anche grazie alle risorse morali, sociali e istituzionali ereditate dal periodo precedente – il principio di piacere e’ riuscito a sovrastare la pulsione di morte. Ma le cose sono cambiate sotto i colpi dei due grandi shock globali del primo decennio del nuovo secolo.

Info:
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/siamo-entrati-nella-supersociet-diventeremo-stupidi-o-pi-liberi
https://www.bioeticanews.it/il-libro-supersocieta-di-c-giaccardi-e-m-magatti/
https://www.pandorarivista.it/pandora-piu/liberta-nella-supersocieta/
https://www.c3dem.it/supersocieta-un-libro-di-magatti-e-giaccardi/
https://www.recensionedilibri.it/2022/06/16/giaccardi-magatti-supersocieta-ha-ancora-senso-scommettere-sulla-liberta/
https://ildomaniditalia.eu/la-super-societa-e-la-scommessa-sulla-liberta-in-un-saggio-di-chiara-giaccardi-e-mauro-magatti-recensione-sullosservatore-romano/

Capitalismo/Mason

Paul Mason – Il futuro migliore. In difesa dell’essere umano. Manifesto per un ottimismo radicale – il Saggiatore (2019)

Qualsiasi economia capitalista ha tre elementi costitutivi – terra, lavoro e capitale –, che producono denaro sotto forma di rendite, salari e profitti.
Iniziamo cercando di capire in che modo il neoliberismo ha cambiato la relazione fra queste cose.
Durante l’era del capitalismo di Stato (1945-1979), il mercato era subordinato allo Stato. Lavoro e capitale collaboravano tra loro. Quanto alla «rendita», veniva scoraggiata.
Quando gli economisti usano il termine «rendita» non intendono solo i soldi che frutta un terreno o una proprieta’, ma qualsiasi forma di denaro ricavata dall’accaparramento dell’offerta di qualcosa, che sia una miniera di cobalto, i diritti di pesca su un fiume o la capacita’ stessa di raccogliere capitale.
La rendita non crea ricchezza, si limita a distribuirla da chi produce ricchezza a chi possiede la proprieta’ affittabile, il rentier o redditiero […]
Nell’era neoliberista, al contrario, lo Stato e’ subordinato al mercato; anzi, lo scopo dello Stato e’ spazzare via ogni ostacolo al mercato e imporlo a forza in tutti gli aspetti della vita che rimangono non commerciali, dalla fornitura dell’acqua di rubinetto all’organizzazione di un appuntamento galante.
Il capitale attacca il lavoro, percio’ i profitti aumentano in rapporto al Pil, mentre la quota destinata ai salari diminuisce.
Contemporaneamente, la «rendita» diventa uno stile di vita: sempre piu’ profitti affluiscono nelle tasche di coloro che sono in grado di creare monopoli e fissare prezzi artificialmente alti, siano essi colossi del software come la Microsoft, giganti dei social media come Facebook, banche d’affari come la Lehman Brothers […]
Nella sua fase finale, il neoliberismo – che era nato come una battaglia in difesa dei valori del libero mercato – e’ diventato un mercato tutt’altro che libero, truccato a favore di monopolisti e speculatori, truccato per proteggere la ricchezza di quelli che gia’ ce l’hanno, truccato per produrre una forte disuguaglianza: una situazione garantita dal controllo che l’elite esercita sullo Stato.

Info:
https://saggiatore.s3.eu-south-1.amazonaws.com/media/rassegne/2019/2019_05_30-manifesto-Mason-1.pdf
https://saggiatore.s3.eu-south-1.amazonaws.com/media/rassegne/2019/2019_10_01-Avvenire-Mason.pdf
https://saggiatore.s3.eu-south-1.amazonaws.com/media/rassegne/2019/2019_07_01-Fatto_Quotidiano-Mason-1.pdf

Economia di mercato/Hickel

Jason Hickel – The divide. Guida per risolvere la disuguaglianza globale – il Saggiatore (2018)

L’esigenza delle grandi aziende [e’] di massimizzare il rendimento per l’azionista.
Come il Pil, anche questo imperativo non esiste da sempre. Le sue origini si possono far risalire al 1919, con la storica sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti «Dodge contro Ford Motor Company».
All’epoca, la Ford Motor Company aveva una notevole eccedenza di capitale e Henry Ford aveva deciso di utilizzarne una parte per aumentare i salari ai suoi operai, che erano gia’ considerati piuttosto alti.
I fratelli Dodge, due dei maggiori azionisti della casa automobilistica, intentarono causa alla Ford per questa decisione, sostenendo che il capitale della compagnia apparteneva agli azionisti e che aumentare i salari senza necessita’ equivaleva di fatto a un furto ai loro danni.
La Corte suprema delibero’ in loro favore, stabilendo un precedente. Le decisioni delle aziende andavano prese anzitutto nell’interesse degli azionisti. Se gli amministratori delegati vogliono spendere del denaro per aumentare i salari o per proteggere l’ambiente in un modo che si traduce in rendimenti piu’ bassi per gli azionisti, non possono farlo, perche’ e’ sostanzialmente illegale.
Oggi le grandi aziende sono governate da questo imperativo, e cio’ forse le rende molto piu’ avide di quanto sarebbero altrimenti.
Abolirlo e’ un passo importante per metterle nelle condizioni di prendere in considerazione altre priorita’

Info:
https://www.ibs.it/the-divide-guida-per-risolvere-libro-jason-hickel/e/9788842824961/recensioni
https://www.culturamente.it/libri/politica-economica-jason-hickel/
https://www.ilsaggiatore.com/libro/the-divide/

 

Economia di mercato/Hickel

Jason Hickel – Siamo ancora in tempo. Come una nuova economia puo’ salvare il pianeta – il Saggiatore (2021)

Il problema non e’ solo la disuguaglianza di reddito, e’ anche la disuguaglianza di ricchezza.
Negli Stati Uniti, per esempio, l’1% piu’ ricco possiede quasi il 40% della ricchezza nazionale. Il 50% piu’ povero non ha quasi nulla, solo lo 0,4%.
A livello mondiale, le disparita’ sono ancora piu’ accentuate: l’1% piu’ ricco ha quasi il 50% della ricchezza mondiale.
Il problema con questo tipo di disuguaglianza e’ che i ricchi diventano rentier estrattivi. I soldi e le proprieta’ che accumulano, largamente superiori a quelli che potrebbero mai usare, li affittano (proprieta’ residenziali o commerciali, licenze di brevetti, prestiti, qualunque cosa). E poiche’ hanno un monopolio su queste cose, tutti gli altri sono costretti a pagare loro affitti e debiti.
E’ quello che viene chiamato «reddito passivo», perche’ entra automaticamente nelle tasche delle persone che detengono il capitale, senza il minimo sforzo da parte loro. […]
E’ come una moderna servitu’ della gleba. E proprio come la servitu’ della gleba, ha gravi implicazioni per il nostro mondo vivente.
La servitu’ della gleba era un disastro ecologico, perche’ i signori costringevano i contadini a estrarre dalla terra piu’ di quello di cui avevano bisogno solo allo scopo di versare i tributi, determinando una progressiva degradazione delle foreste e dei suoli.
Oggi va allo stesso modo: ci costringono a saccheggiare la Terra soltanto per pagare tributi a milionari e miliardari […]
Nessuno «merita» fortune di queste proporzioni. Non e’ una ricchezza che si sono guadagnati, l’hanno estratta: dai lavoratori sottopagati, dalla natura senza dare nulla in cambio, dalle rendite, sfruttando la politica e cosi’ via […]
Dovremmo avere un dibattito democratico su questo tema: qual e’ il punto oltre il quale l’accumulazione di denaro diventa distruttiva e inaccettabile? Cento milioni di dollari? Dieci milioni? Cinque milioni?

Info:
https://oggiscienza.it/2021/05/08/siamo-ancora-in-tempo-jason-hickel/
https://www.ilsaggiatore.com/wp-content/uploads/2021/04/2021_04_20-Manifesto-Hickel.pdf
https://www.linkiesta.it/2021/03/salvare-il-pianeta-rapporto-natura/

Lavoro/Fana

Marta Fana, Simine Fana – Basta salari da fame – Laterza (2019)

L’assunto incontrastato che domina il dibattito pubblico e’ che ogni provvedimento del governo deve fungere da stimolo alla produttivita’ del lavoro per rendere le imprese piu’ competitive.
Parlare solo di produttivita’ del lavoro, pero’, e non dell’intera struttura produttiva o dei costi totali per ciascuna impresa, e’ un atto deliberato.
Significa porre al centro della questione solo una sua parte, evitando di far accendere i riflettori sugli altri fattori produttivi che dipendono unilateralmente dalle scelte aziendali, come ad esempio il tipo di macchinari impiegati e quindi gli investimenti.
Puntano sempre il dito contro il costo del lavoro.
Tutti gli sforzi del governo, qualsiasi esso sia, devono necessariamente essere orientati alla compressione del costo del lavoro: salari, contributi sociali e previdenziali.
Come detto, in Italia questo ritornello va avanti da diversi decenni e la scarsa dinamica dei salari e’ fatta dipendere proprio dagli scarsi livelli di produttivita’ del nostro sistema economico […]
La cattiva fede dei sostenitori del taglio ai salari come volano della produttivita’ finisce per occultare la realta’ di un tessuto produttivo che nell’ultimo decennio ha vissuto un progressivo impoverimento, per cause non certo misteriose, ma tutte interne al processo di accumulazione capitalistico, sia in ambito nazionale che internazionale, Europa compresa.
Di nuovo: dalla crisi del 2008, infatti, l’industria manifatturiera italiana ha perso circa il 15% del suo apparato produttivo, mentre il volume in termini di valore aggiunto nel 2017 e’ di
10 miliardi in meno rispetto a quello registrato nel 2007, secondo quanto emerge dai dati del Rapporto annuale 2018 dell’Istat. Per non parlare dello slittamento dell’occupazione dai settori industriali a quelli dei servizi a basso valore aggiunto (alloggi, ristorazione, magazzinaggio).
Queste dinamiche dovrebbero spingere le forze di governo ad avviare una seria politica di investimenti, capaci di colmare nel medio periodo il gap tecnologico e di specializzazione che attanaglia l’economia italiana, unitamente a una politica salariale che sia almeno dignitosa […]
Un sistema produttivo che puo’ continuare ad accaparrarsi quote di profitto, aumentando il saggio di sfruttamento della forza lavoro, non ha alcuna urgenza a investire per migliorare la propria dotazione di capitale.
Quello che e’ avvenuto in Italia dagli anni Novanta sino al secondo decennio degli anni Duemila e’ esattamente questo: i profitti accumulati dalle imprese non sono stati reinvestiti nell’economia, generando un aumento della rendita tra il 1990 e il 2013 dell’84%, mentre la quota degli investimenti in rapporto ai profitti e’ caduta del 47%

Info:
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858138878
http://www.leparoleelecose.it/?p=37065
https://www.pandorarivista.it/articoli/basta-salari-da-fame-marta-fana-simone-fana/